Farinetti: Eataly, l’enogastronomia e l’imprenditoria poetica
E’ dedicato alla Bellezza l’ultimo “luna park dell’enogastronomia”, il complesso di Eataly che è stato da poco aperto a Roma, al vecchio Terminal Ostiense. E’ il più grande finora costruito e non è un caso che nasca proprio oggi in Italia: è un modo diverso di guardare al futuro del nostro Paese, è una grande sfida. Ben 2300 dipendenti e punti vendita sparsi in tutto il mondo sono nati nel giro di pochi anni. Un esempio che funziona, di come un’impresa può farcela, nonostante i tempi di crisi se punta sulla qualità e la bellezza italiana. Il successo di questa nuova realtà manageriale dipende in gran parte dall’intraprendenza e il coraggio del suo ideatore e fondatore: Oscar Farinetti, un “imprenditore poetico”, come lui stesso si definisce.
E’ il 27 gennaio 2007 quando a Torino nasce Eataly, il primo supermercato al mondo dedicato interamente ai cibi di qualità. Tre piani con ristoranti, bar, scuole di cucina, cantine e un museo. Eataly diventa subito un marchio di spessore: ad oggi sono 23 i luna park dell’enogastronomia sparsi in tutto il mondo che riportano il marchio Eataly, di cui nove nel solo distretto di Tokyo e uno sulla 23esima strada di New York. Ogni Eataly è dedicato a un valore metafisico. Torino all’armonia, Genova al coraggio, New York al dubbio, alla prevalenza del maybe sulla certezza (il cartello all’ingresso infatti recita: “Il cliente non ha sempre ragione e neanche noi”). L’Eataly di Roma, invece, è dedicato alla bellezza italiana. Utopia o fortuna? Staremo a vedere… Oscar Farinetti intanto ha già dimostrato di saper trasformare la sua passione per il benessere e il buon cibo in un affare che non conosce confini.
Un imprenditore polivalente. Oscar Farinetti è un imprenditore torinese di 58 anni. Fu lui a trasformare il supermercato del padre (figlio d’arte quindi) nel primo gruppo italiano di elettrodomestici con il marchio UniEuro (chi non ricorda lo slogan “l’ottimismo è il profumo della vita”, recitato dal grande Tonino Guerra?). Poi la decisione di vendere agli inglesi perché, secondo la leggenda, dice di voler cambiare mestiere ogni dieci anni. E così, anche grazie all’amicizia con Carlo Petrini di Slow Food, decide di occuparsi di eno-gastronomia. Dal luglio 2008 è anche amministratore delegato dell’azienda vitivinicola Riserva bionaturale Fontanafredda, a Serralunga d’Alba (CN). A Fontanafredda c’è anche la sede della sua “Fondazione E. di Mirafiore”. La sede della Fondazione comprende un teatro, una libreria, una vineria con ristoro e uno spazio di vendita dedicato ai vini di Fontanafredda e alle cose buone di Eataly. Il suo ultimo libro è: “7 mosse per l’Italia”, edito da Giunti.
Farinetti ha una sua personale idea di ricchezza e crede fino in fondo che il nostro Paese, con tutti i suoi limiti, ha ancora le carte in regola per superare questo momento buio. Oscar Farinetti non ha mai perso il sorriso. Anche se fino a pochissimi giorni dalla tanto attesa apertura del suo ultimo Eataly alla Stazione Tiburtina, ha rischiato grosso: due dei quattro piani della megastruttura, infatti, erano stati sequestrati dall’XI Municipio per irregolarità sul completamento dell’opera. Insomma, la burocrazia italiana ha colpito ancora. Poco importa che Eataly rappresenti uno dei fiori all’occhiello dell’imprenditoria tricolore e che il nuovo centro ha già dato lavoro a più di 500 giovani nella sola Capitale.
La politica aziendale, tuttavia, ha deciso di distribuire 1/3 dei guadagni ai dipendenti e ai collaboratori, sotto forma di quindicesima mesilità. Cosa di non poco conto, in uno scenario di assoluto precariato e contratti co.co.pro! Vedere il guadagno come possibilità di dare e fare sviluppo: questa l’idea alla base dell’impresa. Eataly, inoltre, ha deciso di dedicare l’altro terzo del profitto ad attività di servizio pubblico, come i corsi, gratuiti, riservati a bambini e pensionati. Nonostante tutte le difficoltà della situazione contingente e la vita non di certo facile per chi vuol far impresa in questo Paese, Farinetti ha deciso di continuare a investire in Italia. Secondo l’imprenditore piemontese, infatti, per produrre ricchezza in un’epoca come questa servono uomini competenti. E anche un po’ più di “imprenditori poetici”, ossia di quelli che pensano che far bene il proprio mestiere significhi far crescere l’impresa e aumentare il benessere dei suoi collaboratori.
La sua è un’idea che funziona, questo è certo, ma lui non ritiene di essere una mosca bianca. In Italia, infatti, esistono tante altre piccole realtà imprenditoriali, specializzate in diversi settori merceologici, che basano il segreto del loro successo su un elemento di natura non economica, ma valoriale: i rapporti instaurati con i propri collaboratori e tramite questi con la gente. Un modo diverso di fare impresa, dunque, o forse rinnovato, come un lontano ritorno alle origini. Farinetti lo sa e crede che il marketing della verità sia sempre rimasta la strada migliore da percorrere. E’ un uomo che non ha mai smesso di credere nell’Italia e che, nonostante il grande successo riscosso all’estero, vuole continuare a investire nel nostro Paese. Perché? Semplice, e forse un po’ banale, recita una canzone, ma lo trova “divertente da morire”. Figlio di partigiano, l’industriale sessantenne è convinto che, nell’attuale fase storica, l’unico modo per continuarsi a divertire in questa realtà è cercare di essere un imprenditore, ma partigiano appunto, in grado cioè di lottare anche contro i mulini al vento, pur di far emergere la sua idea d’impresa.
Metà del cibo venduto è prodotto lì, a vista. Nel dopoguerra si conta che il 60% della spesa familiare era destinato all’alimentazione, mentre oggi, su 750 miliardi del budget destinato ai consumi, se ne spendono appena 180 per mangiare, di cui 120 in casa e 60 nei ristoranti, pari al 25%. Farinetti ha deciso di conquistare il restante 75%. C’è chi lo accusa che Eataly sia roba da ricchi, ma i suoi negozi raccolgono una clientela diversificata: si va dagli appassionati, che a Eataly trovano, a prezzi più bassi, i cibi di nicchia, sino alla gente comune, che sta entrando nell’ordine delle idee di come la differenza fra un piatto di pasta economica e uno di qualità sia pari ad appena 10 centesimi. Preferire la qualità alla quantità insomma. Il nostro Paese produce un corrispettivo di 30 miliardi di euro destinati all’esportazione agroalimentare. Sembra tanto, invece è una miseria. Il sistema Italia si può salvare, quindi, solo se si aumentano le esportazioni. Il cibo e il gustosono elementi italiani forti e Oscar Farinetti invita a fare bene in Italia, dove una buona gestione della “sala dei bottoni” potrebbe addirittura triplicare il livello di esportazioni agroalimentari e raddoppiare anche il turismo, risorse che da sole rappresentano lo 0,4% del mondo in termini di superficie.
Che Oscar Farinetti, con il suo progetto Eataly, abbia capitalizzato il lavoro fatto in questi 26 anni da Slow Food e non solo, trasformando l’idea iniziale dell’Arci Gola in un business planetario e venendo alla ribalta (anche in termini mediatici) come il nuovo guru del food globale, è ormai un dato di fatto. Il made in Italy, tuttavia, pur godendo di elevata notorietà, ha difficoltà ad affermarsi all’interno della grande distribuzione, soprattutto all’estero. Iniziative come questa possono favorire lo sviluppo della commercializzazione dei prodotti agroalimentari italiani. La gente è infatti interessata a capire, oggi più che in passato, cosa compra e cosa mangia, e proprio per questo la formazione e gli spazi didattici sono fondamentali all’interno di Eataly.
Il nostro brand è conosciuto in tutto il mondo. Gli stranieri criticano il nostro scarso senso civico, ma adorano la nostra qualità di vita. Quindi ecco il segreto: bisogna esportare bellezza, dal settore agroalimentare, alla moda e il design, dall’industria manifatturiera di precisione, all’arte e alla cultura. Facile a dirsi, ma più semplice di quanto possa sembrare. E proprio su questo valore bisogna puntare per far ripartire la macchina, la semplicità del buon vivere italiano. Questo principe dei buoni sentimenti, ma anche e soprattutto uomo d’affari, l’ha compreso ormai da tempo. Dopotutto lui è un working class hero, anzi «un mercante di utopie», come recita la sua biografia.
(Marina Bonifacio)
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